Oggi nominare il Benin
significa, per l'immaginario culturale occidentale, parlare di traffico di
bambini, indigenza, disperazione. Una terra da redimere in cui sarebbe necessario
l'intervento immediato e "santo" dell'Occidente.
Quest'approccio filantropico ai problemi dell'Africa risulta esemplare nell'articolo
pubblicato il 17 aprile dal più diffuso quotidiano italiano, Il Corriere
della Sera, dove il Benin, associato con estrema faciloneria all'ex regno
Dahomey, viene descritto come Paese-simbolo dello schiavismo. Le tradizioni
culturali e religiose dell'Africa che si affaccia sul Golfo di Guinea sarebbero
la causa diretta e, a quanto pare unica, di questo traffico di bambini. L'articolo,
sommario anche nella cronaca, accenna all'attività della diocesi di
Cotonou come unico deterrente di questa disgrazia e in nulla sfugge al cliché
sensazionalistico della stampa italiana.
Trovo particolarmente pericoloso questo approccio a ciò che accade
nel Continente Nero. Un normale lettore che non ha mai visitato l'Africa o
che l'ha fatto attraverso tour operator, difficilmente può immaginare
qualcosa di differente da una terra disperata, divisa tra molti sfruttati
e pochi sfruttatori. In quell'edizione del Corriere della Sera vi erano molte
imprecisioni. In primo luogo non si può equiparare il regno Dahomey
con il Benin dato che quest'ultimo è un'invenzione geografica e politica
uscita dai processi di decolonizzazione. In secondo luogo il Benin rappresenta
una delle realtà politiche ed economiche più solide dell'intero
continente e non se ne può misurare la stabilità su coefficienti
economici da "Western lifestyle".
Allo stesso modo non si può considerare la tradizione vudù come
un morbo che infesta il paese. I culti ancestrali costituiscono la ricchezza
e l'ossatura di questa parte di Africa e non possono essere correlati a un
traffico di schiavi, a meno che, per analogia, in Italia non si considerino
i "carusi" come vittime del cristianesimo. La tradizione in questa
parte di mondo è qualcosa di più. E' il collante di un tessuto
sociale che vive di legami personali diversi dai nostri, quasi ridotti a mere
relazioni di carattere socio economico. Distruggere la cultura di questi paesi
anche esaltando l'opera di evangelizzazione di missionari, le attività
di emergenza di organizzazioni non governative e la solidarietà di
Paesi sviluppati, significa celare agli altri e a sé stessi una nuova
forma di colonialismo.
Chiunque visiti l'Africa e ha la fortuna di vivere con gli africani sa che
esistono due livelli relazionali. Il primo è fatto di ospitalità,
generosità e curiosità. Il secondo, difficile da raggiungere,
richiede la loro fiducia ed è la strada che porta a conoscere, o almeno
ad intuire, la particolare ricchezza del loro collante sociale e culturale.
L'articolo de Il Corriere della Sera è l'ennesima manifestazione dell'attenzione
superficiale prestata verso le altre culture e alimenta un'ignoranza ormai
diffusa e la presunzione di donare il nostro equilibrio al mondo.
Ma quanti si chiedono oggi se la nostra società ha un equilibrio?
Questa premessa noiosa, forse anche un po' retorica, mi è necessaria
per introdurre questa rubrica che intende valorizzare aspetti non tragici
e catastrofici dell'Africa. A questa ci pensano già interventi come
quello appena contestato. Lo scopo di Vive Afrique vive! è di cogliere
aspetti sconosciuti di questo continente così affascinante, siano essi
sociali, storici, economici o culturali. L'Africa,
con tutto il suo retroterra di tradizione ha un potenziale altamente innovativo,
perché non è solo la modernità a creare innovazione,
ma il suo equilibrio con la tradizione. Spero di trovare lettori indulgenti
e critici, nonchè collaborazioni proficue.
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Questo articolo
è provocatoriamente dedicato al Benin e più in particolare al
centro Songhai che nacque nell'ottobre del 1985 per iniziativa di padre Nzamujo,
un nigeriano che, dopo essersi laureato in informatica negli Stati Uniti,
era tornato in Africa con la missione di distribuzione dei viveri Usa for
Africa, intervenuta a fronte di una gravissima carestia. Lo choc per le devastanti
condizioni in cui versava la popolazione colpita e la consapevolezza che l'Africa
non poteva sopportare modelli di sviluppo importati dall'Occidente, lavorò
alla costituzione di un progetto agricolo che corrispondesse alle esigenze
e alle risorse africane.
Trovò le condizioni per operare nel 1985 a Porto Novo dove prese forma
un'agricoltura rispettosa della natura, in cui il riciclaggio delle materie
prime e degli scarti dei prodotti avrebbe avuto un ruolo fondamentale. Lo
stesso padre Nzamujo, in una relazione ad un congresso tenuto a Firenze nel
1999, così sintetizzò le modalità operative del centro:
"A Songhai, giovani ingegneri e studenti dalle università del
paese vengono a mettere in atto le tecniche che ci permettono di allevare
pesci con i resti dell'allevamento dei polli e dei bovini, oltre a batteri
e mosche. Nei periodi di secca, gli impianti di piscicoltura vengono trasformati
in campi per la coltivazione di soia e cotone. Inoltre recuperiamo e mettiamo
in funzione molte macchine agricole obsolete per l'Europa e gli Stati Uniti,
ma estremamente utili qui".
L'acqua delle vasche in cui sono allevati i pesci viene purificata attraverso
il lavoro di piante come il "giacinto d'acqua" e può essere
riciclata per l'irrigazione dei campi. Al centro Songhai tutto è importante
ed esiste una rigorosa raccolta differenziata delle materie organiche. Gli
antiparassitari vengono ottenuti dalle foglie di neem, albero molto diffuso
nella regione. E' una scoperta di Elliot Wilson, responsabile del reparto
ricerca e sviluppo. Pestando le foglie e i semi di questo albero si ottiene
un prodotto assolutamente innocuo, sicuramente meno efficace di un pesticida
chimico, ma capace di allontanare i parassiti dalle piante per due settimane
senza contaminare l'ambiente. L'attenzione all'ecosistema è prioritaria.
Per questo motivo non si produce energia attraverso la combustione del legno.
Per evitare il disboscamento si utilizza il metano prodotto in apposite cisterne
dove vengono fatti fermentare rifiuti vegetali ed escrementi di animali. Sicuramente
controtendenza con quanto avviene nei paesi sviluppati.
Sempre padre Nzamujo puntualizza: "In Francia, oggi, l'energia consumata
nel settore agricolo è chiaramente non sostenibile. Per produrre 6
milioni di tonnellate di energia petrolio-equivalenti di cibo sui loro piatti,
ne occorrono 30 milioni al momento della trasformazione, e 150 milioni nello
stadio iniziale". La ricerca di uno sviluppo autogestito, indipendente
e durevole è evidente. "La solidarietà accresce, la carità
uccide" è la sintesi di Nzamujo. Ed è anche il principio
con cui il centro cerca di diffondere ed alimentare il suo carattere di innovazione.
Songhai è, infatti, sia un centro di formazione che un centro di ricerca.
Semestralmente vengono scelti trenta allievi che possono studiare e vivere
nel centro gratuitamente per diciotto mesi. Una formazione fatta in aula e
sul campo che ha come scopo quello di dare le competenze, anche finanziarie,
per aprire una fattoria ecologicamente autosufficiente. Ultimamente il centro
ha aperto anche dei laboratori di artigianato dove pare sia molto numerosa
la partecipazione femminile.
Aumenta la partecipazione delle donne ai programmi di Songhai, cosa che permette
loro di emanciparsi socialmente e di poter accedere al possesso agricolo.
Infine bisogna ricordare che molti sono anche gli studenti europei che oggi
si interessano a questa rivoluzione ecologica. Il Benin, attraverso la presidenza
di Kerekou, mostrò una certa sensibilità per il ritorno degli
afroamericani nel loro continente d'origine. E il percorso di Nzamujo che,
se non erro, divenne domenicano solo quando ritornò in Africa, va proprio
in questa direzione. Così come il centro Songhai dimostra che sviluppo
sostenibile (o durevole) non è un concetto di cui sono detentori organizzazioni
non governative, missionari e filantropici governanti europei o americani.
L'Africa diventa la protagonista principale della sua emancipazione che ha
connotati diversi da quelli della nostra storia economica.
Costringerla in parametri importati corrisponde a una nuova forma di schiavismo.
Significativo a riguardo quanto padre Nzamujo ha dichiarato a Enrico Bartolucci,
giornalista del bimestrale Africa: "In occidente l'agricoltura biologica
è quasi un passatempo per ecologisti snob. Qui invece è l'unica
via possibile. Come può un contadino africano comprare assiduamente
sementi e pesticidi dall'Occidente... Il cerchio più grande è
l'economia, il secondo cerchio rappresenta l'uomo e il più piccolo
la natura, l'ultima preoccupazione. Tutto nel mondo occidentale è subordinato
all'economia, anche l'essere umano. Il modello di Songhai è opposto:
il centro più grande è la natura, che contiene tutto e a cui
tutto è subordinato, poi viene l'uomo e solo per ultima l'economia.
Solo così lo sviluppo può essere veramente duraturo e sostenibile".