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ECOLOGIA E SVILUPPO IN BENIN

Il progetto Songhai: una rivoluzione ecologica in Africa occidentale

di Alessandro Acito

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Oggi nominare il Benin significa, per l'immaginario culturale occidentale, parlare di traffico di bambini, indigenza, disperazione. Una terra da redimere in cui sarebbe necessario l'intervento immediato e "santo" dell'Occidente.
Quest'approccio filantropico ai problemi dell'Africa risulta esemplare nell'articolo pubblicato il 17 aprile dal più diffuso quotidiano italiano, Il Corriere della Sera, dove il Benin, associato con estrema faciloneria all'ex regno Dahomey, viene descritto come Paese-simbolo dello schiavismo. Le tradizioni culturali e religiose dell'Africa che si affaccia sul Golfo di Guinea sarebbero la causa diretta e, a quanto pare unica, di questo traffico di bambini. L'articolo, sommario anche nella cronaca, accenna all'attività della diocesi di Cotonou come unico deterrente di questa disgrazia e in nulla sfugge al cliché sensazionalistico della stampa italiana.
Trovo particolarmente pericoloso questo approccio a ciò che accade nel Continente Nero. Un normale lettore che non ha mai visitato l'Africa o che l'ha fatto attraverso tour operator, difficilmente può immaginare qualcosa di differente da una terra disperata, divisa tra molti sfruttati e pochi sfruttatori. In quell'edizione del Corriere della Sera vi erano molte imprecisioni. In primo luogo non si può equiparare il regno Dahomey con il Benin dato che quest'ultimo è un'invenzione geografica e politica uscita dai processi di decolonizzazione. In secondo luogo il Benin rappresenta una delle realtà politiche ed economiche più solide dell'intero continente e non se ne può misurare la stabilità su coefficienti economici da "Western lifestyle".
Allo stesso modo non si può considerare la tradizione vudù come un morbo che infesta il paese. I culti ancestrali costituiscono la ricchezza e l'ossatura di questa parte di Africa e non possono essere correlati a un traffico di schiavi, a meno che, per analogia, in Italia non si considerino i "carusi" come vittime del cristianesimo. La tradizione in questa parte di mondo è qualcosa di più. E' il collante di un tessuto sociale che vive di legami personali diversi dai nostri, quasi ridotti a mere relazioni di carattere socio economico. Distruggere la cultura di questi paesi anche esaltando l'opera di evangelizzazione di missionari, le attività di emergenza di organizzazioni non governative e la solidarietà di Paesi sviluppati, significa celare agli altri e a sé stessi una nuova forma di colonialismo.
Chiunque visiti l'Africa e ha la fortuna di vivere con gli africani sa che esistono due livelli relazionali. Il primo è fatto di ospitalità, generosità e curiosità. Il secondo, difficile da raggiungere, richiede la loro fiducia ed è la strada che porta a conoscere, o almeno ad intuire, la particolare ricchezza del loro collante sociale e culturale. L'articolo de Il Corriere della Sera è l'ennesima manifestazione dell'attenzione superficiale prestata verso le altre culture e alimenta un'ignoranza ormai diffusa e la presunzione di donare il nostro equilibrio al mondo.
Ma quanti si chiedono oggi se la nostra società ha un equilibrio?
Questa premessa noiosa, forse anche un po' retorica, mi è necessaria per introdurre questa rubrica che intende valorizzare aspetti non tragici e catastrofici dell'Africa. A questa ci pensano già interventi come quello appena contestato. Lo scopo di Vive Afrique vive! è di cogliere aspetti sconosciuti di questo continente così affascinante, siano essi sociali, storici, economici o culturali. L'Africa, con tutto il suo retroterra di tradizione ha un potenziale altamente innovativo, perché non è solo la modernità a creare innovazione, ma il suo equilibrio con la tradizione. Spero di trovare lettori indulgenti e critici, nonchè collaborazioni proficue.

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Questo articolo è provocatoriamente dedicato al Benin e più in particolare al centro Songhai che nacque nell'ottobre del 1985 per iniziativa di padre Nzamujo, un nigeriano che, dopo essersi laureato in informatica negli Stati Uniti, era tornato in Africa con la missione di distribuzione dei viveri Usa for Africa, intervenuta a fronte di una gravissima carestia. Lo choc per le devastanti condizioni in cui versava la popolazione colpita e la consapevolezza che l'Africa non poteva sopportare modelli di sviluppo importati dall'Occidente, lavorò alla costituzione di un progetto agricolo che corrispondesse alle esigenze e alle risorse africane.
Trovò le condizioni per operare nel 1985 a Porto Novo dove prese forma un'agricoltura rispettosa della natura, in cui il riciclaggio delle materie prime e degli scarti dei prodotti avrebbe avuto un ruolo fondamentale. Lo stesso padre Nzamujo, in una relazione ad un congresso tenuto a Firenze nel 1999, così sintetizzò le modalità operative del centro: "A Songhai, giovani ingegneri e studenti dalle università del paese vengono a mettere in atto le tecniche che ci permettono di allevare pesci con i resti dell'allevamento dei polli e dei bovini, oltre a batteri e mosche. Nei periodi di secca, gli impianti di piscicoltura vengono trasformati in campi per la coltivazione di soia e cotone. Inoltre recuperiamo e mettiamo in funzione molte macchine agricole obsolete per l'Europa e gli Stati Uniti, ma estremamente utili qui".
L'acqua delle vasche in cui sono allevati i pesci viene purificata attraverso il lavoro di piante come il "giacinto d'acqua" e può essere riciclata per l'irrigazione dei campi. Al centro Songhai tutto è importante ed esiste una rigorosa raccolta differenziata delle materie organiche. Gli antiparassitari vengono ottenuti dalle foglie di neem, albero molto diffuso nella regione. E' una scoperta di Elliot Wilson, responsabile del reparto ricerca e sviluppo. Pestando le foglie e i semi di questo albero si ottiene un prodotto assolutamente innocuo, sicuramente meno efficace di un pesticida chimico, ma capace di allontanare i parassiti dalle piante per due settimane senza contaminare l'ambiente. L'attenzione all'ecosistema è prioritaria. Per questo motivo non si produce energia attraverso la combustione del legno. Per evitare il disboscamento si utilizza il metano prodotto in apposite cisterne dove vengono fatti fermentare rifiuti vegetali ed escrementi di animali. Sicuramente controtendenza con quanto avviene nei paesi sviluppati.
Sempre padre Nzamujo puntualizza: "In Francia, oggi, l'energia consumata nel settore agricolo è chiaramente non sostenibile. Per produrre 6 milioni di tonnellate di energia petrolio-equivalenti di cibo sui loro piatti, ne occorrono 30 milioni al momento della trasformazione, e 150 milioni nello stadio iniziale". La ricerca di uno sviluppo autogestito, indipendente e durevole è evidente. "La solidarietà accresce, la carità uccide" è la sintesi di Nzamujo. Ed è anche il principio con cui il centro cerca di diffondere ed alimentare il suo carattere di innovazione. Songhai è, infatti, sia un centro di formazione che un centro di ricerca. Semestralmente vengono scelti trenta allievi che possono studiare e vivere nel centro gratuitamente per diciotto mesi. Una formazione fatta in aula e sul campo che ha come scopo quello di dare le competenze, anche finanziarie, per aprire una fattoria ecologicamente autosufficiente. Ultimamente il centro ha aperto anche dei laboratori di artigianato dove pare sia molto numerosa la partecipazione femminile.
Aumenta la partecipazione delle donne ai programmi di Songhai, cosa che permette loro di emanciparsi socialmente e di poter accedere al possesso agricolo. Infine bisogna ricordare che molti sono anche gli studenti europei che oggi si interessano a questa rivoluzione ecologica. Il Benin, attraverso la presidenza di Kerekou, mostrò una certa sensibilità per il ritorno degli afroamericani nel loro continente d'origine. E il percorso di Nzamujo che, se non erro, divenne domenicano solo quando ritornò in Africa, va proprio in questa direzione. Così come il centro Songhai dimostra che sviluppo sostenibile (o durevole) non è un concetto di cui sono detentori organizzazioni non governative, missionari e filantropici governanti europei o americani. L'Africa diventa la protagonista principale della sua emancipazione che ha connotati diversi da quelli della nostra storia economica.
Costringerla in parametri importati corrisponde a una nuova forma di schiavismo. Significativo a riguardo quanto padre Nzamujo ha dichiarato a Enrico Bartolucci, giornalista del bimestrale Africa: "In occidente l'agricoltura biologica è quasi un passatempo per ecologisti snob. Qui invece è l'unica via possibile. Come può un contadino africano comprare assiduamente sementi e pesticidi dall'Occidente... Il cerchio più grande è l'economia, il secondo cerchio rappresenta l'uomo e il più piccolo la natura, l'ultima preoccupazione. Tutto nel mondo occidentale è subordinato all'economia, anche l'essere umano. Il modello di Songhai è opposto: il centro più grande è la natura, che contiene tutto e a cui tutto è subordinato, poi viene l'uomo e solo per ultima l'economia. Solo così lo sviluppo può essere veramente duraturo e sostenibile".