La
self reliance fu, a suo modo,
un'idea nobile e generosa. Ma chi si aggira oggi (1993
n.d.r.) per le strade di Dar Es Salaam ha l'impressione
di trovarsi in un altro paese. Se le povere librerie espongono
ancora, assieme ai testi scolastici mezzo mangiati dall'umidità,
testi dal chiaro orientamento ideologico, sulle facciate
dei grandi palazzi del centro leggo le insegne di tutte
le maggiori società mondiali, Olivetti compresa.
Tuttavia c'è qualcosa di entusiasmante in un paese
giovane (anche anagraficamente, le strade pullulano di
ragazzi disoccupati che salutano con il "Jambo", l'allegro
saluto swahili), senza dogmi da osservare ma aperto, pur
con qualche ingenuità, al nuovo, un paese ricco
di storia, di bellezza. Se in Italia in molti oggi inseguono
l'ambiguo concetto della "normalità" ("un paese
normale", "un partito normale"), questa sembra essere,
a tutti gli effetti, un'Africa appunto "normale", senza
stragi etniche, senza carestie devastanti, ma in compenso
con "normali" strade piene di buchi, luce e acqua che
"normalmente" vanno e vengono, "normale" economia informale.
Dar Es Salaam è un mosaico di fisionomie e di religioni,
dunque è un po' lo specchio del paese. La domenica
spio le famiglie indiane, avvolte in vesti colorate, che
si recano al tempio indù, gli arabi che pregano
nelle loro moschee, costruite accanto alle gioiellerie
che gestiscono da sempre, i funzionari delle ambasciate
e delle agenzie Onu che giocano al golf nel Gymkana club
(e s'incazzano se li distrai). I giovani neri riempiono
discoteche che aprono nel primo pomeriggio e chiudono
a notte inoltrata. Sudore e vapori di birra Safari. Poca
nostalgia di quando gli strumenti non erano amplificati,
e ogni passo aveva un senso.
In città le razze si sfiorano,
ma non si mescolano. Il bisogno di preservare la propria
identità mi sembra essere più forte, pur
non dando origine ad atti di intolleranza veri e propri.
La costa orientale dell'Africa è sempre stata un
crocevia di commerci, ed i contatti delle popolazioni
rivierasche col mondo precedono di molti secoli l'arrivo
di Vasco da Gama e degli altri esploratori europei. Oggi
una nuova specie umana si unisce alle tante già
presenti, quella del giovane ricercatore, uscito da qualche
università europea o americana con buone referenze
e una borsa di studio. Ne incontro una folta delegazione
alla Luther House, che ospita i viaggiatori "fai da te"
per una cifra irrisoria, in camere spartane. Sono dottorandi
tedeschi, chi aspirante antropologo, chi storico del colonialismo,
chi linguista. Nei loro confronti nutro sentimenti contrastanti.
Da un lato, come ogni viaggiatore desideroso più
di ogni altra cosa di fare conoscenza con i "locali",
la loro presenza mi infastidisce. Dall'altra, apprezzo
la loro preparazione, le loro motivazioni, e talvolta
l'intelligenza di certe analisi. E' strano: chi, in patria,
si dichiara favorevole alla società multirazziale,
all'estero, e in particolare in questi paesi "esotici",
talvolta pretende poi che tutto rimanga intatto, o addirittura
"incontaminato". In realtà non esistono culture
vergini, meno di tutte quelle africane.
L'isola dei tesori Zanzibar
dista dal molo di Dar tre-quattro ore di battello. Durante
il viaggio hanno proiettato un film di avventura, una
produzione asiatica densa di ultraviolenza, con sbudellamenti
e teste che saltano. Tutti stanno a guardare divertiti,
ma quando arrivano le scene d'amore, caste, solamente
l'eroe e l'eroina che si baciano, in piedi, vestiti, le
donne si coprono gli occhi e gli uomini non sanno che
faccia fare. Vedere le cose per le quali la gente s'imbarazza
o si scandalizza è un bel modo di viaggiare e di
cogliere la distanza culturale. Zanzibar
è un'isola al 99% musulmana, di setta ismailita
(il capo religioso è l'Aga Khan), e conserva il
ricordo dei fasti passati. Zanzibar si è federata
al Tanganika nel 1964, dopo che un colpo di stato ha posto
fine al sultanato, e quindi al predominio degli arabi
omaniti, che qui fondarono un impero economico, facente
perno sulle spezie e gli schiavi. La Stone Town, o città
di pietra, è davvero qualcosa di speciale per l'Africa:
il centro un dedalo di viuzze che si scavano il passaggio
fra case a più piani, dai portoni delicatamente
intarsiati, che restituiscono agli europei le immagini
intraviste sui libri di Salgari. Ad ogni angolo ci sono
botteghe, a celebrare l'amore tutto arabo per la compravendita
ed insieme il disprezzo per il lavoro manuale, che in
passato spettava infatti ai neri catturati sul continente,
che transitarono di qui a migliaia, e che a migliaia vennero
deportati nelle altre isole dell'oceano indiano e anche
nella penisola arabica. "Tutti gli adulti - scrive Livingstone,
l'uomo che avrebbe aperto le porte dell'Africa centrale
alla cosiddetta "civiltà", parola che all'epoca
faceva rima con quella di "libero commercio" - sembrano
vergognarsi di essere messi in vendita. Si osservano attentamente
i denti, si sollevano le vesti per esaminare meglio gli
arti inferiori, e si dà allo schiavo un bastone
da impugnare per vedere meglio come cammina...". Stanley
non aveva gli stessi scrupoli morali (mise le sue conoscenze
al servizio di uno dei tiranni più feroci che l'Africa
abbia mai conosciuto, re Leopoldo II del Belgio), ed è
per questo che in tutti i musei della Tanzania, a paragone
di Livingstone, ci fa una pessima figura.
Le guide turistiche non segnalano
come degni di nota i quartieri nuovi di Zanzibar, abitati
dai zanzibarini meno abbienti. Ci sono andato con un matatu,
uno dei taxi collettivi pieni fino all'inverosimile, per
visitare una balera assolutamente off the tracks. In pista,
tanti ragazzi e nessuna donna, musica reggae e tarab,
il solito aspirante businnesman in erba che non si lascia
sfuggire l'occasione di attaccare bottone con il mzungu
(il bianco, ovvero, mi spiegano, "quello che ha sempre
la testa fra le nuvole"). Le proposte d'affari sono una
delle prime cose con le quali il viaggiatore europeo deve
imparare a fare i conti. Anche quando, come il sottoscritto,
nutre ancora la speranza che "sviluppo diverso" sia più
di uno slogan, anzi, che proprio in paesi come questo
si possano percorrere strade nuove. Per esempio:
laddove i costi di un'elettrificazione diffusa sembrano
insormontabili, il ricorso all'energia solare potrebbe
forse rappresentare non una soluzione un po' snob ma un'alternativa
vantaggiosa ed economicamente compatibile. O laddove importare
petrolio significa creare nuove forme di dipendenza, sfruttare
le biomasse (come, facendo di necessità virtù,
hanno sperimentato i cubani, riciclando gli scarti del
raccolto della canna da zucchero) potrebbe consentire
di coniugare ecologia e bisogni sociali.
A mezzanotte torno alla Stone Town a piedi (non c'è
rischio, non siamo né a Miami né a Rio).
Improvvisamente, contemplando la fioritura surreale di
cemento armato sotto la volta stellata, scopro di essere
alla periferia di Berlino, ma una Berlino degradata, fatiscente,
con le facciate delle case corrose dalla salsedine. "Ma
no", mi spiegano i miei amici il giorno dopo "quelli che
hai visto sono solo i palazzi fatti costruire dalla Ddr,
in nome della solidarietà internazionalista".
I parchi del nord...
|