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Viaggio
nel Gabon - Ricordo di Albert Schweitzer
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di
Diana Pasetti
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"Vengo anch'io"
dissi decisa, piantando I piedi, ben saldi, al centro della stanza.
John, sorpreso, interruppe il suo organizzare quel prossimo viaggio nel
Gabon.
Stava impartendo ordini sul modo in cui si sarebbero dovuti riunire,
enormi quantitativi di medicinali, bende, vaccini, latte in polvere e
altre necessità primarie che attendevano ammucchiati nel nostro
garage e nei box di tutti I vicini. Le automobili, sfrattate, erano temporaneamente
parcheggiate in strada.
Le donazioni erano arrivate numerose, nei giorni precedenti, con tutti
I mezzi immaginabili. Grandi ditte avevano fatto scaricare casse intere
di prodotti. Gruppi religiosi avevano raccolto presso I fedeli ogni ben
di Dio prima di consegnarceli. Era anche accaduto che qualche singola
famiglia ci portasse un pacchetto, del vestiario. Le scuole avevano voluto
partecipare raccogliendo le lettere che I bambini indirizzavano ai loro
coetanei africani.
Stavamo vivendo, da giorni, in un generoso confuso subbuglio.
John stava ora cercando di procurarsi dei mezzi per trasferire l'ingente
carico fino all'aeroporto, organizzandosi con l'aiuto di volontari. Lì
un aereo della Croce Rossa gli sarebbe stato messo a disposizione. Sei
o sette persone erano riunite, da ore, a casa nostra. Il sole stava tramontando,
portando con sé un tiepido pomeriggio romano. Nella stanza un
acre odore di fumo. Ovunque erano sparsi fogli scribacchiati e cicche
di sigarette. Una gran confusione. L'unico telefono appoggiato in terra,
non faceva che squillare.
Io entravo ed uscivo in continuazione dalla porta, portando ora questo,
ora quell'oggetto. Tutti chiedevano qualcosa, senza pertanto prestarmi
la pur minima attenzione.
"Vengo anch'io!" ripetei con forza. John, mi guardò
allora stupito e poi scandalizzato, da un comportamento alquanto ardito,
che non riconosceva in me. Solo allora, credo, gli altri notarono la
mia presenza.
A casa, ero sempre stata considerata una "sciocca nata" da entrambi
I miei genitori. Per John, mio padre, noto radiocronista, in particolare,
ero un animaletto di pelouche da accarezzare istintivamente se gli passi
vicino, oppure, un pupazzo da tiranneggiare, secondo i propri umori.
Era sconcertato e sorpreso, dal tono della mia nuova voce, alta e decisa.
"Ragiona" continuai piantando gli occhi ben fissi nei suoi "come
farai a trasportare in giro, per mezzo mondo, da solo un apparecchio
da registrazione che peserà 50 o 60 chili? Chi ti aiuterà
su e giù per la scaletta degli aerei? Da una imbarcazione all'altra,
dimmi chi ti aiuterà?" L'entusiasmo per il recente successo ottenuto
nell'aver raccolto, con una trasmissione alla radio francese, in contemporanea
di quell'italiana e inglese, l'attenzione di mezza Europa, si fermò
per un attimo. John si era dimostrato davvero grande con la sua "Chene
du bonheur" in favore del dottorr Schweitzer e dei suoi diseredati in
terra d'Africa. Già, il registratore! Occorreva imbarcare anche
quello. Soprattutto quello. Per John era più importante di tutto
il resto. Come aveva fatto a non pensarci?
Papà mi fissòancor più profondamente con quei suoi
occhi azzurri così trasparenti, così strani.
D'un tratto il pupazzo si era messo a parlare. Non solo, aveva anche
espresso un problema. Il trasporto del registratore! Come non averci
pensato?
John era indubbiamente un pioniere delle comunicazioni a distanza, e
anche un reporter geniale in quei primissimi anni sessanta.
Al suo attivo, John aveva ricevuto una educazione di livello internazionale.
Aveva una famiglia in diplomazia, conosceva svariate lingue e soprattutto
possedeva la padronanza dello spazio. Ovunque si trovasse pareva essere
a casa sua.
Inoltre, possedeva l'incantesimo di seguire sempre il suo istinto. Un
istinto veramente valido anch'esso dato che lo conduceva sempre in prima
linea per ciò che riguardava il suo impegno di libero professionista.
La sua missione come amava definirla lui. Ed era uno scoop dietro l'altro.
Unico ingombro proprio quell'apparecchio, ancora primitivo, per un modo
di muoversi così veloce. Non era adeguato ad una personalità
e un tempismo sempre in corsa.
Il registratore allora, era un baule di legno enorme, contenente fili
e valvole, non transistor degli anni ancora a venire. Ed era pesante.
Per trasportarlo da un luogo all'altro occorrevano sempre due persone.
Una per parte a quel mobile, per cercare di sollevarlo, aggrappate alla
cinghia di cuoio che l'avvolgeva, una volta chiuso.
John si doveva poi, ancora caricare sulle spalle una borsa contenente
metri di filo elettrico, con a capo, un microfono che pareva una lampadina.
Più che un radiocronista assomigliava ad un facchino. Un portatore
con molti sogni in testa, innumerevoli domande da formulare, tante conoscenze
e posti ancora da incontrare.
Egli credeva pazzamente nel suo mestiere: l'andare, il cercare, l'indagare
sempre. La sua vita? Un'avventura! La ricchezza? Presentare questa vita
e I suoi personaggi al prossimo. Ritrasmettere suoni, impressioni, vibrazioni!.
Eravamo una ben strana copia davvero sulla pista dell'aeroporto di Roma
quella mattina. Piazzati sotto l'ala di un Jet ad elica, entrambi con
i capelli in balia ad un forte vento. Sopra di noi un cielo plumbeo che
minacciava pioggia.
John controllava meticolosamente, sotto la pancia dell'uccello metallico,
il carico dei doni ricevuti ed arrivati miracolosamente fino a lì.
Io, immobile come un soldatino, alla guardia del "baule" ai piedi della
scaletta, piccola, magra e già intirizzita dal freddo.
Sandro, il nostro fotografo e parte integrante della spedizione non era
ancora arrivato e John si stava davvero innervosendo per questo.
"Lo vedi?" mi gridava alzando appena il capo, mentre continuava
a contare le casse man mano che venivano caricate.
"Lo vedi?" Facevo finta di non sentirlo, per non innervosirlo ulteriormente
pur tenendo gli occhi ben fissi sul cancello della palazzina aeroportuale
aperta sulla pista.
Anche un aeroporto era diverso allora. Raggiungere un velivolo era come
attraversare una piazza per raggiungere una nuova momentanea dimora.
"Eccolo! Sta' arrivando" gridai a mia volta scorgendo un piccolo uomo
che correva verso di noi trafelato.
Anche l'equipaggiamento di Sandro era di notevoli proporzioni. Il pover'uomo
scompariva quasi sotto le numerose apparecchiature fotografiche. Cercava
inoltre di trascinare una pesante borsa di pelle ciondolante raso terra.
Le tasche del suo abito trasandato erano rigonfie di pellicole e lampadine.
Appena in tempo sull'orario stabilito.
La stiva del velivolo si stava già richiudendo dietro al prezioso
carico. I piloti intenti a provare, per un'ultima volta, il funzionamento
dei comandi. Finalmente ci stavamo imbarcando.
La ripida scaletta fu percorsa parecchie volte in su e giù per
caricare tutto ciò che doveva essere portato a bordo. Per ultimo
il bene più prezioso: la macchina parlante, il baule!
Fummo in tre ad issarlo con fatica. Uno scalino e fermata, un altro ancora
e sosta fino a poterlo adagiare sul pavimento dell'aereo.
Il portellone era ancora aperto quando mi sedetti vicino al finestrino
allacciandomi una primitiva cintura di sicurezza.
"Ma che fa? Viene anche la scimmietta?" chiese Sandro stupito. Nessuno
si era preoccupato di informarlo. Anche lui aveva una figlia della mia
età più o meno, lasciata alle cure della mamma, al riparo
nella sua casa. Mio padre alzò le spalle come per dire: "Non farci
caso. Sa badare a se stessa."
Non tenni conto del trascorrere del tempo in quel primo volo della mia
vita. Non ricordo proprio quante volte la pancia mi sia saltata in gola,
per i sussulti causati dai vuoti d'aria, prima di riassestarsi definitivamente
al suo posto.
Trascorrevo il tempo in un dormiveglia continuo, mentre i due uomini
parlavano ininterrottamente di lavoro. Si scambiavano le proprie esperienze,
litigavano per le idee politiche di Sandro e apolitiche, umanistiche
e ideologiche di John.
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